Inviato il 16/06/2012 da Elena Pedoto
Omaggio a Sergio Leone o più
semplicemente un modo per inscrivere la fiaba nella realtà, C'era una volta in
Anatolia (Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes 2011) è il sesto
lungometraggio del regista turco Nuri Bilge Ceylan, apprezzato e pluripremiato
regista da festival (sempre a Cannes ha ricevuto nel 2003 il Gran Premio della
Giuria per Nuzak e poi nel 2008 il Premio per la Miglior Regia per
Le tre scimmie). Un lungo (circa due ore e mezza) peregrinare
attraverso le steppe dell'Anatolia in cui a prevalere sono il senso della
ricerca, il tarlo della memoria, la necessità di una riflessione sulla storia di
una terra di confine che nel suo essere retrograda ancora ammette un forte
contatto con la spiritualità e il potere plasmante della natura. Suddiviso in
tre atti che ruotano attorno ai tre personaggi principali (il poliziotto, il
procuratore e il medico) C'era una volta in Anatolia è un film
formalmente libero ed esteticamente complesso, che muta l'indagine dall'oggetto
al soggetto, finendo per essere un viaggio nella propria terra alla ricerca di
sé stessi. Proprio così come il cadavere introvabile, disperso da qualche parte
per le colline anatoliche diventa una verità terribile da accettare, sospesa
nello strano vento che ogni tanto si alza riconducendo ogni vita al pensiero
delle proprie colpe, delle proprie omissioni, di una vita privata che sembra
scura come le colline avvolte nel crepuscolo dell'Anatolia.
In cerca di che cosa?
Sul finire della sera tre macchine
(avvolte nella sola luce dei loro fari) percorrono le tortuose strade che
attraversano il saliscendi collinare nel cuore della steppa anatolica. Si tratta
di una squadra d'indagine e all'interno delle tre macchine viaggiano un
poliziotto, un procuratore, un medico e il presunto assassino alla ricerca del
cadavere della sua vittima. Ma si tratta di una ricerca perlopiù vana e
apparentemente destinata a non dare alcun frutto.
Lungo il tragitto e durante le varie soste si
aprono e si chiudono, quasi senza una vera e propria linea, conversazioni sul
cibo, sulle malattie; discorsi che nella loro superficialità alludono a qualcosa
di più profondo e più scuro che attraversa le vite dei protagonisti (soprattutto
quella del procuratore e del medico, tra i quali si aprirà una conversazione
sulla misteriosa storia di una donna morta nel giorno da lei predetto e per
cause apparentemente ignote). A metà percorso gli uomini si fermeranno a
mangiare a casa del sindaco del villaggio e sarà ancora il buio a dominare,
visto che all'improvviso la luce andrà via e la sola illuminazione concessa sarà
quella della candela accesa dalla bella figlia del sindaco. Un nuovo momento di
riflessioni solitarie che accompagnerà i volti e gli occhi degli uomini,
illuminati uno alla volta dalla fioca luce del lume in una bellissima scena di
'rivelazioni visive'. Alle prime luci dell'alba le macchine riprenderanno il
loro cammino e, finalmente, dopo aver ritrovato il cadavere, dovranno ingegnarsi
per trasportarlo (privi dell'attrezzatura adeguata). A quel punto, per la sua
ultima tappa, l'indagine si sposterà nella sala dell'autopsia dove avverrà anche
il riconoscimento del cadavere da parte della moglie del defunto; una location
metaforica e ideale per un'ultima, dolorosa riflessione sulla vita dell'uomo (su
ciò che è stato e ciò che potrebbe essere).
Una densa riflessione sulla
colpa
"Still the years will pass and not a
trace will remain of me. Darkness and cold will enfold my weary soul...".
Di matrice esistenzialista e costruito su una poetica fortemente estetica (in
cui è il giallo ocra a dominare, il colore di un bagliore, che non è né luce né
tenebra) il film di Ceylan affronta attraverso la riflessione
(compiuta da uomini che incarnano diversi stadi della società - dal colpevole al
poliziotto, dal medico al militare) filtrata dai ‘pensieri' di una natura
silente che ogni tanto si palesa (la mela nel suo percorso solitario, il vento
che si alza, le foglie che si ribellano in aria) il tema della colpa.
Una colpa che è solo in superficie legata
all'uomo ammanettato e che tutti indicano come colpevole, ma che in realtà
rimbalza attraverso le riflessioni di tutti gli altri assumendo una forza e una
concretezza sempre maggiori. L'oscurità e il freddo citate nella frase del poeta
anonimo finiscono così davvero per avvolgere le vite di questi uomini, tutti
colpevoli di aver tradito, trascurato o ignorato il proprio senso del dovere
verso la propria famiglia, la propria moglie. Una colpa che cerca di redimersi
nella forma (è ironico come il cellulare dell'irascibile poliziotto suoni le
note di Love story per indicare la chiamata della sua donna) ma
che non vi riesce, e che quindi torna a sedimentare negli animi in cui
galleggiano densi macigni di verità, come il pensiero che i figli paghino
sempre per le colpe dei propri padri o la consapevolezza che chi si suicida
spesso lo fa per punire chi resta.
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