Mosè in Egitto secondo Graham Vick dal ROF al DVD (per chi ama Rossini)


L’anima di Mosè

recensione di Roberta Pedrotti

130502_CD La gazza ladraG. Rossini
Mosè in Egitto
Zanellato, Esposito, Ganassi, Korchak, Shi, Scala, Amarù
direttore Roberto Abbado
regia Graham Vick
Pesaro, Rossini Opera Festival 2011
2 DVD Opus Arte OA 1093 D, 2012
L’esperienza teatrale è di tale complessità e pienezza da non poter essere sostituita da nessun’altra. È unica e irripetibile, irriproducibile. Eppure ora che la tecnica lo permette, non possiamo rinunciare a riprodurla: vi sono lavori che devono essere documentati e tramandati, né la scelta del verbo paia eccessiva, giacché preservare i frutti della mente umana per i posteri, affinché la storia possa continuare a insegnare, stimolare, arricchire, è una nostra precisa responsabilità.Un incipit tanto solenne vale a ricordare una delle più straordinarie letture di un’opera in musica, una produzione che ha saputo coniugare un impatto emotivo impareggiabile a un profondo stimolo intellettuale e di riflessione politica senza travisare d’una virgola il testo dell’azione tragico sacra di Tottola e Rossini. Vale a ricordare che quello che provammo nell’estate del 2011 all’Adriatic Arena non potrà essere ripetuto, ma che ne esiste testimonianza, come un caro cimelio: altri ne potranno godere in una forma diversa, tutti potremo continuare a riflettere su queste recite e a farne il punto di riferimento imperituro che meritano di essere.
Mosè in Egitto è la storia di un uomo che nel nome della sua fede combatte per condurre il suo popolo fuori da un regno considerato nemico e lo fa compiendo azioni anche violente senza il minimo cedimento, mentre il sovrano tentenna, s’interroga sugli effetti per i rapporti con gli stati confinanti dell’esodo di questi profughi, mentre due giovani innamorati appartenenti alle fazioni opposte sono vittima dell’odio fra le loro genti. La tradizione, con la sua matrice giudaico cristiana, ci dice che Mosè è un giusto e che le sofferenze di ebrei ed egiziani sono l’inevitabile conseguenza dell’ottusa ostinazione di Faraone. Ma quando questi vede il figlio primogenito cadere vittima dell’angelo della morte c’è chi non provi pietà? Chi non compatisca questo padre vittima di un’inflessibilità divina che non poteva conoscere e comprendere fino a quel punto?

È il soggetto in sé ad essere molto più complesso di quel che siamo abituati a voler considerare, è l’opera a portare in sé i germi di un approfondimento ben altrimenti articolato. È, poi, il dovere che distingue l’artista dal routinier, anche rispettabilissimo, saper leggere fra le righe, saper dare un’anima al testo – o, meglio, saperla svelare – in mondo che possa sempre rinnovarsi.
Nel 2011, infatti, questo a molti parve uno spettacolo d’attualità, e senza dubbio lo era, ma il tempo e il filtro della ripresa televisiva non ne hanno attutito l’impatto: anzi, sono lì a confermarci che nel lavoro registico di Vick c’era qualcosa di molto più profondo di una semplice ricontestualizzazione dal regno di Ramesse II al Medio Oriente di oggi. È la lettura pura e semplice di Mosè in Egitto al di là della solenne sacra rappresentazione, dello splendido santino tradizione, della retorica. È una storia di uomini, di fedi, fanatismi, di poteri, di politica in cui nessuna parte può dirsi giusta, ma in cui tutti sono vittime e carnefici e l’unico sentimento puro e salvifico viene stritolato.
Guardate gli egiziani che arrestano, minacciano, torturano Mosè; guardate Mosè che prega mentre semina l’esplosivo, per lui un estremo atto di fede contro i nemici del popolo eletto da un Dio che in quel momento si volge a loro dal suo stellato soglio. Guardate gli ebrei che cantano “Dio così stermina i suoi nemici… Tremate o perfidi, sue furie ultrici: è questo un segno del suo favor” mostrando cinture esplosive e bombe innescate che scintillano nell’oscurità, anche brandite da bambini, ragazzini kamikaze. Guardate la bravura estrema di ogni singolo artista in scena, di qualunque età o sesso, cantante o meno.
Guardate seguendo solo l’azione, seguendo le parole e i gesti, e chiedetevi se tutto quello che di agghiacciante e mostruoso noi vediamo non sia già naturalmente nel testo, non sia nella nostra natura, non faccia parlare l’opera di Rossini agli uomini di oggi e alla loro storia, se non li spinga a riflettere.
Mille immagini di morte e fanatismo ci bombardano ogni giorno. Le parole più violente sono pane quotidiano, sdoganate al punto da non fare più quasi effetto e da rendere il passaggio ai fatti tanto naturale da essere pericolosamente impercettibile. Armi giocattolo capaci di uccidere pensate e vendute per bambini in età prescolare, espressioni di morte e di guerra svendute nel linguaggio quotidiano, mentre filtriamo milioni di informazioni e stimoli indifferenziati attraverso un monitor, rischiano di anestetizzare la nostra percezione della realtà, del sangue, della carne, della vita, del bene e del male.
Il teatro è un farmaco: un veleno, un filtro, un antidoto, una cura.
Da quella sera d’agosto del 2011 mi è impossibile anche solo ascoltare il finale del primo atto senza avvertire un nodo alla gola. Chi preferisce ammirare esternamente una celebrazione si accomodi pure con altri allestimenti; questa è arte per chi pensa che la grandezza dell’opera in musica sia dar vita proprio a un teatro autentico e profondo.

Tutto nelle prove degli interpreti, dal direttore all’ultima delle comparse ( che ultima non è mai, ma fondamentale e caratterizzata al pari dello stesso Mosè) è inscindibile da una forte linea drammaturgica e non v’è scelta musicale che non paia necessaria e inevitabile.
Così la direzione di Roberto Abbado è aspra, dura, petrosa. Echeggia la violenza, risuonano da lontano i mortai, un popolo in miseria assedia una reggia troppo ricca. Il fanatismo è alimentato dall’ingiustizia, dalle borsette firmate della regina che si atteggia a filantropa e politica senza averne la statura, dalla divisa di college inglese del principe, dalle tute sdrucite dei giovani ebrei, dalle divise delle donne delle pulizie, dalle baracche che si accampano lungo il muro che segna il confine. La devozione degli egiziani al loro re è l’unico appiglio nell’estrema sofferenza di un popolo che soffre come quello ebraico, ma ha solo un altro punto di riferimento in cui credere. In termini astratti potremmo forse lamentare la concertazione un po’ troppo asciutta e spigolosa, perfino limitata nei colori, ma proprio quelle durezze, quel ritegno, quei timpani senza ridondanze orientali sono quelli giusti. Non sarà il suono più bello possibile, ma la forza drammatica di quest’opera non può fermarsi alla pura bellezza esteriore, tanto da farci apparire come autentico e insostituibile anche il Mosè di Riccardo Zanellato, perché non importa se la pasta vocale non è quella morbida del puro belcantista, quella ampia, calda e avvolgente del grande basso patriarcale: Zanellato è un leader d’azione, di poche, ma studiate ed efficacissime parole, un estremista, un uomo che per ottenere il suo scopo è pronto a servirsi d’ogni mezzo e questa è la sua voce, né più né meno. Faraone è un sovrano pieno di dubbi, abituato a pesare ogni azione e le possibili conseguenze, a gestire una politica internazionale delicatissima e il suo canto non può che essere più mosso e variegato: con altrettanta intelligenza Alex Esposito si afferma come perfetto contraltare del profeta e sigla forse la più alta interpretazione di tutta la sua carriera. Senza cedere all’iperdinamismo che talvolta lo caratterizza, convoglia tutte le tensioni in un ché di febbrile che lo scuote senza perdere mai la dignità del capo di stato. E tuttavia umanamente vacilla allorquando scopre i terroristi annidati nel suo palazzo o vede morire il figlio, o ancora quando la rabbia e la sete di vendetta lo acciecano. Rossini scrive esattamente questo nella parte di Faraone ed Esposito è straordinario nel realizzarlo unitamente nella voce, nel gesto, in ogni espressione. Non arriva a tali vertici la coppia di amorosi, per qualche limite vocale un po’ più marcato, benché anche nel loro caso la definizione dei personaggi sia davvero centrata a tutto tondo. Ma Sonia Ganassi, davvero graziosa nel suo costume, fatica assai quando dal canto elegiaco, dalle frasi più acute e si trova a legare ampie frasi o ad affrontare la coloratura più drammatica, come nel finale del secondo atto. Ma Dmitry Korchak è un gentile tenore lirico leggero che, senz’essere un contraltino, si trova a suo agio nelle tessiture tendenti all’acuto e non dà il meglio di sé, faticando talora nell’appoggio, nella parte centralissima e altera di Osiride, per quanto l’aspetto del principino ben educato nei migliori college occidentali, indubbiamente viziato, a tratti arrogantello, ma anche innamorato sincero e passionale gli stia a meraviglia e vi aderisca totalmente. Così come Yijie Shi incarna perfettamente Aronne, senza mai scindere il musicista dall’attore, entrambi, peraltro, eccellenti; e la stessa cosa si potrebbe dire del serpentino Mambre di Enea Scala, che la personalità rende ben maggiore di quanto solitamente sia questo personaggio. Chiara Amarù è una vera perla nei panni di Amenofi e l’unico elemento vocalmente censurabile finisce per essere l’Amaltea di Olga Senderskaya, tanto azzeccata nella definizione fisica della regina glamour che vuole impicciarsi d’alta politica internazionale per sentirsi un po’ Ranja di Giordania da far sembrare comprensibile e contestualizzato perfino il suo canto sgradevole. Incredibile ma vero, miracoli del teatro musicale.
Alla fine in questo DVD possiamo rilevare un unico vero difetto, ma non di poco conto: per la prima edizione ufficiale in video del Mosè in Egitto, per di più in uno spettacolo non oleografico, ma forte di una lettura attenta e critica del libretto, l’assenza dei sottotitoli in italiano è pesante mancanza. Sarebbe interesse di tutto il pubblico, non solo di quello madrelingua, poter consultare in diretta il rapporto fra il testo originale e l’azione. Non prevedere la traduzione per le interviste in inglese allo scenografo è una triste mancanza d’attenzione verso il nostro paese che

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